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Mentalizzazione

Mentalizzazione

La parola mentalizzazione potrebbe richiamare un concetto inquietante, forse ipnotico. No….

Per “mentalizzazione” si intende la capacità di un individuo di interpretare i diversi stati mentali che si possono attraversare.

Secondo lo psicologo ungherese Peter Fonagy, la mentalizzazione è una funzione elaborata e complessa poiché comprende anche l’immaginazione e l’intelligenza emotiva, ovvero la capacità di usare le proprie emozioni; quindi, saper gestire i propri comportamenti e comprendere quelli delle persone che ci stanno attorno.

Perché comprendere la mentalizzazione è importante?

Riconoscere il nostro stato mentale e quindi emotivo, può aiutarci a vivere la vita e le relazioni con più consapevolezza.
Le capacità riflessive sugli stati mentali sono alla base dell’empatia e consentono di andare al di là dell’atteggiamento esteriore manifestato, per cogliere lo stato psichico che ha motivato un determinato modo di agire.

Quest’idea dice che lo stato mentale di un individuo diventa come un oggetto che può essere pensato. Possiamo cioè attribuire un significato ai nostri stati mentali e a quelli degli altri. Questa competenza è legata alla qualità delle prime relazioni di attaccamento e al rispecchiamento di sé che in tale relazione e, in quelle successive, si riceve ed è fondamentale per l’organizzazione del Sé e la regolazione affettiva.

Possiamo dire che un bambino si pensa per come è pensato, “io sono come tu mi guardi”. Lo sguardo dell’adulto che si prende cura è fondamentale perché in base a questo, il bambino acquisirà, con sfumature variabili, la propria capacità di entrare in relazione con gli altri intorno a sè.

Gli studi dicono che, se siamo cresciuti come adulti capaci di riferire, parlare e comunicare i nostri stati emotivi, contribuiremo a costruire nei nostri figli questa possibilità di narrare e di verbalizzare dando un significato a ciò che si prova, mettendoli nella direzione di un legame di attaccamento sicuro.

Bowlby ci dice che l’attaccamento sicuro è conseguenza di un atteggiamento contenitivo efficace da parte del genitore, il quale sa comprendere come il proprio bambino in un determinato momento si sente, “ho capito che adesso sei arrabbiato”.

Ciò comporta nel tempo, che il bambino, sviluppi un Sé riflessivo, cioè dotato, a propria volta di pensare gli stati mentali propri e altrui.

Cosa significa riflettere lo stato mentale?

Il genitore si rappresenta i pensieri del proprio bambino, ciò che sta provando, i suoi bisogni, le sue intenzioni, cercando di interpretarli e di comprenderli. Nello stesso tempo rende espliciti i propri processi mentali attraverso le espressioni del volto, traducendoli in azioni, in un linguaggio comprensibile e condiviso, consentendo così al bambino di sentirsi compreso e riconosciuto.

Può capitare però che, per far fronte ad atteggiamenti non sufficientemente mentalizzanti dell’adulto caregiver, il bambino può orientarsi verso capacità meno riflessive e così verso uno stile di attaccamento più insicuro.

Gli studi dicono che la carenza di mentalizzazione sembrerebbe così legata a carenze nelle capacità riflessive genitoriali, avendo poi minore funzionamento sia in espressione affettiva che in regolazione emotiva.

È importante allora che il bambino colga che, chi si prende cura di lui, non solo fa questo, ma che sta anche riflettendo su di lui “ho capito che se stai facendo così è perché sei infastidito”.

Se allarghiamo il nostro pensiero, la mentalizzazione può essere allora considerata, non come la caratteristica di un singolo, ma come espressione di un sistema di relazioni.

Capacità riflessive di una famiglia

Le capacità riflessive di una famiglia o di una coppia sono fondamentali al mantenimento del benessere, alla soluzione di conflitti, alla possibilità di adattamento, mentre la loro carenza può esser considerata come fattore prognostico di difficoltà relazionali, comportamentali o somatiche. Esiste infatti, un forte legame tra difficoltà di mentalizzazione, psicosomatica, disturbi dell’umore e conflitti relazionali. Pensiamo a quanto sia importante saper tollerare la frustrazione di un rifiuto senza esserne travolti.

L’attuale sviluppo delle neuroscienze ha permesso di descrivere accuratamente le strutture cerebrali, i circuiti e i processi neurologici alla base della mentalizzazione, dell’attaccamento e delle competenze relazionali.

In particolare, l’emisfero destro domina la risposta alle espressioni del volto, l’elaborazione e l’espressione emotiva e anche la comunicazione non verbale.

Possiamo dire che l’emisfero destro di chi si prende cura, promuove lo sviluppo dell’emisfero destro nel bambino, agendo come una sorta di stampo che influenzerà le sue future competenze affettive e la capacità di stabilire relazioni significative emotivamente.

In questo modo si avvia una forma di regolazione: la comunicazione emotiva fra madre e bambino, connotata da affetti positivi e la visione del volto materno, stimolando le endorfine, favorisce la crescita della zona prefrontale nel periodo in cui si stabilizza il legame di attaccamento.

Quindi l’emisfero destro crea le condizioni neurobiologiche favorevoli affinchè le esperienze di attaccamento plasmino le strutture cerebrali del comportamento sociale e della regolazione emotiva.

Il bambino piccolissimo, neonato, non ha alcuna consapevolezza riguardo i propri stati emotivi, un neonato non pensa ma fa esperienza attraverso il proprio corpo, infatti le sue “rappresentazioni emotive” sono centrate sostanzialmente sugli stimoli dell’ambiente esterno. Più avanti essi imparano a discriminare i pattern fisiologici e viscerali che accompagnano le differenti emozioni, osservando le reazioni, le espressioni delle figure di riferimento.

Diciamo infatti che il volto, il comportamento, la vocalità della figura che si prende cura, funge da rispecchiamento: il bambino si rispecchia nell’adulto che gli è vicino. Così ad esempio, la percezione fisiologica di fame o freddo, acquisisce un graduale significato psichico sulla base dei comportamenti attuati dell’adulto nel momento in cui si prende cura del proprio bambino.

Interiorizzazione del comportamento

Tutto questo è supportato da osservazioni sistematiche, da studi validati nel tempo, i quali confermano che la visione della madre, dal punto di vista neurobiologico, produce nel cervello del bambino un rilascio di endorfine che, agendo sui circuiti sottocorticali della ricompensa, amplificano le sensazioni positive, comportando così la piacevolezza data dalla relazione di attaccamento. Da qui, gradualmente l’arrivo ad un controllo degli stati mentali e dei loro correlati somatici. L’interiorizzazione del comportamento di accudimento avvenuto da parte della madre, la visione empatica del suo volto, ha la funzione di organizzare il Sé e moderare l’emotività.

Questa intresoggettività costituisce la matrice dei futuri legami di attaccamento e della regolazione emozionale.

Gli studi hanno inoltre dimostrato che, eventi stressanti nei primi anni di vita, possono perturbare questo processo, inducendo cambiamenti nel comportamento e nelle risposte allo stress in età adulta.
La carenza di mentalizzazione del caregiver può, quindi avere conseguenze molto serie sulla regolazione affettiva, quando non si è in grado di dare una lettura adeguata ai comportamenti del proprio bambino. È importante ad esempio, saper interpretare l’aggressività perché essa può rappresentare un’affermazione di sé e non l’intenzione di arrecare un danno o fare male, ma talvolta ciò può essere frainteso.

A volte l’aggressività rappresenta la difesa di un Sé indebolito da esperienze negative o da una scarsa sensibilità di chi si trova intorno. Ovvero, quando di fronte a ogni comportamento problematico, il genitore non riesce a riflettere sullo stato mentale del proprio figlio, può restituirgli un’immagine negativa: figlio cattivo, pericoloso, stupido. Quando allora un ragazzo avverte tutte queste immagini su di sé, può provare a sottrarsi o reagire aggressivamente perché non vorrà riconoscersi in tali modi nel pensiero degli altri.

Le capacità riflessive allora, sono particolarmente importanti quando si è esposti a situazioni sfavorevoli. Una valida mentalizzazione infatti, oltre a favorire una regolazione adeguata delle proprie emozioni e una migliore gestione dello stress, permette di considerare il comportamento altrui come espressione di uno specifico stato mentale (un momento di rabbia, un fraintendimento). In tal modo un atteggiamento di rifiuto o un atto di violenza non portano necessariamente a una visione negativa di sè stessi o della relazione con l’altro, perché è possibile fare una valutazione dell’evento collocandolo in un contesto e dandogli un significato.

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